Due Lolita non fanno un Nabokov

Due Lolita non fanno un Nabokov

April 15, 2022 0 By Simone Tarditi

Oh, l’irrisolvibile questione dei film tratti da romanzi. Accettato il fatto che siano essi due prodotti distinti per aspetto e modi di fruizione, rimane al contempo vero che l’uno si origina dall’altro e che, in virtù di questo legame di parentela artistica, si vorrebbe perlomeno si assomigliassero. Spesso è così – ed è il caso dei due Lolita – spesso no. Spesso le colpe e i meriti sono attribuibili a qualcuno, spesso in corso d’opera alcuni film prendono direzioni imprevedibili. Quel che conta è il risultato.

Pur avendo la sua importanza nell’aver contribuito ad allargare una crepa con la tradizione cinematografica regolamentatissima e codicizzata dell’epoca, la verità è che non solo Lolita non è tra i migliori film di Kubrick, ma non è neanche il miglior adattamento possibile del romanzo di Nabokov (il quale ha visto se stesso accreditarsi come sceneggiatore pur essendo stato stravolto il suo script). Senza aprire una parentesi sul rapporto tra cinema e fonti letterarie nel cinema di Kubrick, Lolita appare il più rispettoso dei film che il regista trae da un libro. Poco viene stravolto in termini di personaggi e narrazione, l’impianto generale e la successione cronologica degli eventi viene mantenuta; si aggiorna invece la vicenda per renderla contemporanea ai primi anni Sessanta. Mancanza che avrebbe invece motivato di più l’agire di Humbert Humbert è la sacrificata indagine psicologica sul passato oltreoceano del protagonista. Kubrick rende un povero coglione, nonché vedovo allegro, quello che Nabokov descrive con perizia come un pericoloso e complesso individuo il quale commette crimini per via di una natura intimamente malata e che, disgustosamente, trova una spiegazione per le sue malefatte in un “trauma d’amore” avuto da giovanissimo. Colpisce come Kubrick ribalti quest’ultimo aspetto: è Charlotte Haze a confessare a H. H. quanto le ricordi una vecchia cotta, mentre egli all’inverso sta nutrendo per la figlia di lei un’infatuazione creatasi non dal nulla, bensì causata da una relazione adolescenziale che l’ha dilaniato.

Vuoi per i tempi più maturi (il cinema del 1997 dista eoni da quello del 1962), vuoi per il voler prendere le distanze dalla pellicola kubrickiana per non rischiare di ricalcarla, vuoi anche per la differente sensibilità di un cineasta come Adrian Lyne, la seconda apparizione sul grande schermo di Lolita non è minimamente paragonabile alla prima. Tolta una frettolosa ultima mezzora, il film non solo finalmente fornisce una spiegazione sul perché Humbert Humbert sviluppi una morbosa forma d’amore nei confronti di quella che definisce una “ninfetta”, ma ricolloca l’intero svolgersi della vicenda in una dimensione temporale coeva a quella del romanzo. Si spinge oltre: si mostra H. H. indurre chi gli sta vicino a stati di torpore tramite uso di pillole, si fanno palesi riferimenti sessuali dopo che l’atto è avvenuto o sta avvenendo (via via Lyne si addentra anche tra le lenzuola stesse), e l’intraprendenza di Dolores sfocia in baci e contatti fisici che il suo patrigno interpreta come non dovrebbe. Il ritmo è vertiginoso, serrato, tanto da sfociare inevitabilmente nella ripetizione a lungo andare. Delle varie strade alternative che Lyne percorre rispetto a Kubrick c’è quella che vede una presenza pressoché invisibile – salvo nel finale – del personaggio di Quilty: nella pellicola del ’62 Peter Sellers sovrasta per carisma James Mason, in quella di trentacinque anni dopo Frank Langella è così ridicolo da dare spessore persino all’impalpabile e fanciullesco Humbert Humbert di Jeremy Irons. Per contro, Sue Lyon e Dominique Swain sono due Lolite completamente diverse, ma ugualmente indimenticabili nelle loro interpretazioni.

Simone Tarditi