
Appunti sparsi su Zero Gravity di Woody Allen
June 14, 2022 0 By Simone TarditiUna nuova raccolta di racconti a distanza di quindici anni dall’ultima, ecco il palliativo somministrato agli appassionati di Woody Allen la cui carriera cinematografica non si capisce se sia in stallo o lì lì per riprendere da un momento all’altro (Parigi chiama?) visto che la bufera su di lui si sta diradando. È difficile pensarlo per troppo tempo lontano da un set, impossibile credere che quello dei film sia un capitolo chiuso. Zero Gravity (Ed. Nave di Teseo, traduzione di Alberto Pezzotta attentissima a rendere in lingua italiana molti giochi di parole) è l’intermezzo con cui ingannare il tempo nell’attesa di una risposta che prima o poi dovrà per forza arrivare. E … non è male. Come operazione editoriale è da considerare alla stregua di un trattamento postumo fatto a qualcuno ancora in vita. Tradizionalmente, tuttavia non sempre, una “collezione” di brevi racconti (già apparsi altrovi accompagnati da inediti) è quel che si fa per onorare la memoria di qualcuno unendo insieme un tot di materiale che difficilmente troverebbe altra collocazione. Non è il caso di Woody Allen, vivissimo e con gli occhi aperti su un presente a cui non ha mai sentito di appartenere del tutto, ma che in tutta la carriera non ha mai smesso di osservare divertito. Non è una novità quindi.
Si parte con Non puoi tornare a casa, e ti spiego perché, uno scavo nella psiche di un uomo nevrotico (la tipologia “sopporto tutto senza scoppiare”) che vede la sua adorata casa piena di ceramiche di Delft e vasi cinesi (gli stessi che in L’ala dinastica vengono rotti durante esercizi di twerking) messa a soqquadro da una troupe cinematografica. Consolazione? Al tizio è stato ritagliato un ruolo, quello di un suicida. E si finisce con Crescere a Manhattan, il racconto più lungo nonché il più autobiografico (forse anche il più recente?), una triste cronistoria di sentimenti amorosi che degradano lasciando il posto alla confusione che anticipa e immediatamente segue la fine di una relazione. Tolta questa coda dove regna la disillusione, in tutto il resto di Zero Gravity vige il principio dell’assurdo e del divertissement. In Quasi Rembrandt si prendono in giro i boccaloni del mondo dell’arte che acquisterebbero una crosta qualsiasi vendutagli come capolavoro. Sempre sul tema, in Dove ho lasciato la bombola dell’ossigeno? s’ironizza con facilità su un acquerello raffigurante due lesbiche che macellano un pollo in modo kosher. C’è poi il più confortevole cuscino mai creato che avrebbe la capacità di portare la pace nel mondo (Svegliami quando sarà tutto finito), un uomo che si reincarna in un crostaceo e finisce nell’acquario di un ristorante (Due aragoste a Manhattan), oppure uno sguardo a tracolli finanziari e materassi pieni di banconote (I soldi comprano la felicità, più o meno), bevande in grado di potenziare la memoria (Pensaci bene e lo ricorderai), l’analisi stomacata del bluff che è l’universo real estate filtrata dagli occhi di una coppia di sposi alla ricerca di una casa (Park Avenue, piano alto. Vendi o buttati), bovini omicidi che narrano di sé in prima persona singolare (Mucca pazza), automobili che filosofeggiano (Quando sul cofano della macchina c’è Nietzsche). Nelle pagine di Spiacenti, non sono ammessi animali domestici c’è spazio anche per un attacco al politicamente corretto e a quest’epoca dove l’unico mantra che si recita in pubblico è quello dell’inclusività.
In Zero Gravity Woody Allen scrive con la fantasia di un bambino, fantasia che perciò, in quanto tale, è sconfinata fino al fare occasionali incursioni nell’irrealtà. Lo si nota soprattutto nei racconti dove si parla anche di cinema: si passa dalla proboscide mutilata (il naso, non altro) della statua di Sylvester Stallone a un progetto non andato in porto con Steven Spielberg perché questi si è preso un anno sabbatico per fare il consulente alla Knesset. O, ancora, l’autore scherza sul pubblico di zombie che, dopo l’ennesimo blockbuster copia-incolla, esce dalle sale “con lo stesso entusiasmo degli operai che vanno in fabbrica all’inizio di Metropolis di Fritz Lang” (cit.), mentre altrove tira in ballo l’idea di un remake del Cavaliere della valle solitaria interpretato solo da nani. Non mancano titoli di film inventati di sana pianta, come La serenata della carpa ripiena. Il bestiario che esce dalla penna, pardon, dalla macchina da scrivere di Woody Allen ha infine nella scelta dei nomi una delle sue caratteristiche più peculiari. Per esempio: Ivan Panufnik, Hal Roachpaste, Al Capon (un barone delle uova!), Lady Tofu e Porfirio Moshpit, Rita Moleskin e Mohandas Crestfallen, Hugo Forcemeat, e molti altri. Personaggi visualizzabili fisicamente già solo per come si chiamano. Ora però attendiamo di tornare a vedere suoi nuovi “tipi umani” sullo schermo.
Into this world we're thrown".
-Jim Morrison
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