
Venezia79: Appunti sparsi su Call of God di Kim Ki-duk, un tributo
September 9, 2022 0 By Simone TarditiInaspettatamente annunciato nel programma della 79ma Mostra del Cinema di Venezia (sezione Fuori Concorso), da subito gli interrogativi su Call of God di Kim Ki-duk sono vertiti più su cosa fosse che su come fosse. Questo perché l’improvvisa dipartita causa Covid-19 nel dicembre del 2020 era stata accompagnata dalla notizia che nell’Europa dell’Est il regista coreano stesse cercando di stabilirsi e iniziare una nuova fase della sua carriera, non che l’anno prima avesse già iniziato in Kyrgyzstan la lavorazione di un nuovo film. A tutti gli effetti, oggi, un regalo postumo. Benché completato e assemblato da persone a lui vicine, Call of God è totalmente un prodotto dell’estro di Kim Ki-duk e, altra sorpresa, non dovrebbe neanche essere il capitolo finale della sua carriera: un’altra opera a suo nome, Who is God?, è elencata tra le prossime uscite.
Call of God (Kõne taevast, recita il titolo originale, mentre è La chiamata dal Cielo quello della versione italiana) è nelle sue imperfezioni e difetti tecnici che nasconde la purezza del modo istintivo, quindi selvaggio e mai addomesticato, che fin dagli esordi ha accompagnato Kim Ki-duk nel fare il suo cinema, ineguale a nessun altro. Lo spettatore, fedele od occasionale che sia, deve andare oltre e non far caso agli sbalzi di luce all’interno di una stessa scena, al pesante ridoppiaggio, ai problemi di continuità, tutte inezie di fronte al film che nel suo complesso si ha di fronte. E non perché Call of God sia un capolavoro in grado di ridefinire la filmografia stessa di Kim Ki-duk (che di essere ridefinita o ricalibrata non ha bisogno: è straordinaria già così), ma perché ogni fotogramma si compone di un equilibrio che è solo quello dei veri artisti: la rabbia e il fuoco sacro da una parte, la solennità e il principio di sintesi dall’altra. In un tentativo di rinnovamento e trasformazione, senza però dimenticare chi si è stati: in quest’ottica, si veda come il cineasta recuperi il se stesso più amato, quello di Ferro 3 con l’inserimento, verso la fine del lungometraggio, di una mazza da golf, strumento che nelle sue mani diventa tanto di gioco quanto di violenza. E non è neanche l’unico atto di autoreferenzialità.
Uno svisceramento della trama permette di cogliere spunti non inediti: Call of God è il canto di una neo-coppia che vive la propria relazione ubbidendo ai precetti della gelosia e della possessione. Con tutti i lati negativi che essi comportano: isolamento, ferocia, paure, asocialità. “Una gabbia dell’amore egoista” a un certo punto viene definita la storia dei due. E nel mostrare quanto un simile approccio ai sentimenti sia deleterio su ogni fronte, Kim Ki-duk rivela quelle che sono le dimensioni superiori che racchiudono le esistenze dei personaggi, ovvero degli esseri umani tutti: quella della vita e quella della morte, che a loro volta portano con sé altri due concetti, quello della pace dello spirito e quello del conflitto interiore. Lasciare questo mondo con uno stato d’animo piuttosto che l’altro è la sfida più grande dell’individuo. Kim Ki-duk lo sapeva, cercava delle risposte assieme ai suoi protagonisti e ogni suo film lo testimonia, compreso questo, ma ciò che egli avrà sentito dentro di sé negli ultimi istanti è impossibile da dire.
Into this world we're thrown".
-Jim Morrison
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