La cinefilia mortuaria di Pearl

La cinefilia mortuaria di Pearl

November 4, 2022 0 By Simone Tarditi

Pearl funziona bene anche come standalone, senza necessariamente aver visto o aver apprezzato X. Una considerazione, questa, per dare valore a uno dei titoli di punta nel panorama mainstream di questo 2022 alquanto paraculo in termini di proposte hollywoodiane. Al di là dei toni da fiaba horror, al di là delle componenti più slasher (è pur sempre un film di Ti West), al di là di un ritratto femminile che è al contempo una celebrazione e una sconsacrazione, merito anche della sua interprete, Mia Goth, a cui andrebbero tributati premi a raffica come attestato di una bravura rivelatasi qui eccezionale, Pearl è grande cinema, non c’è discussione.

Scegliendo come ambientazione il 1918 – un sessantennio tondo dagli eventi di X – l’autore di Pearl ha fatto centro due volte con un colpo solo: ha sia calato la sua vicenda ai tempi dell’influenza spagnola (oltre seicentomila morti nei soli Stati Uniti), creando connessioni molto aderenti all’era Covid, sia ha inquadrato quello che, economicamente parlando, è stata l’autentica stagione d’oro per la cinematografia quando andare in sala era considerato il top dell’intrattenimento. Il meglio del meglio. Ci sono poster, programmi cartacei, c’è il mestiere del proiezionista (che, tentatore, instrada la protagonista verso una follia che solo parzialmente è alimentata dalla magia dei fotogrammi in movimento), c’è persino l’albore della pornografia, ma soprattutto c’è il desiderio siderale di fama che il cinema, irradiando con le sue immagini una vita perfetta che è pura illusione, offre.

Quella di Ti West vuole essere cinefilia mortuaria, non potrebbe essere altrimenti. Se un film è un oggetto morto che, venendo riprodotto, vive solo in virtù di una sua resurrezione “cadaverica” con durata fissa, sempre identica a se stessa, allora dev’essere anche uno strumento ludico con cui trasformare la morte in spettacolo. Ciò avviene in Pearl senza sofismi o riflessioni ammuffite. Si prenda un esempio, uno solo su tutti: l’alligatore Theda, un omaggio alla diva Theda Bara, esotico acronimo di Arab Death, tra l’altro platealmente già commemorata per mezzo della locandina di Cleopatra (1917, un titolo perduto di cui sopravvive solo un frammento di una ventina di secondi). Le fauci di Theda sono portatrici di morte ed è innegabile un certo piacere nel vederle in azione (molto più in X, a essere onesti, dove la progenie del rettile ha proliferato nelle stagnanti decadi americane). Morte che, al pari della natura del cinema, si riverbera in Pearl in forma doppia quando si osserva la protagonista prelevare un uovo dal nido di Theda e poi stringerlo nelle mani fino a farlo scoppiare. È una breve sequenza che pare fine a se stessa, sennonché anticipa invece un’informazione che si scopre più avanti: anche Pearl, incinta di quel marito finito sul fronte francese, avrebbe potuto dare alla luce una creatura se essa non fosse deceduta anzitempo. Non che, per sua stessa ammissione, la realtà sia qualcosa che l’è mai interessata.

Simone Tarditi
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