Cesare Pavese pensava alla morte, ma amava la vita

Cesare Pavese pensava alla morte, ma amava la vita

January 27, 2023 0 By Simone Tarditi

C’è sempre stata la tendenza a percorrere l’esistenza di Cesare Pavese partendo dal fondo, da quando essa è tragicamente terminata per volontà dello stesso scrittore in una stanza dell’Hotel Roma, nel cuore di Torino. Quasi come se da quel cocente 27 agosto 1950 si potesse salire a ritroso il fiume della vita dello scrittore e poter cogliere con più chiarezza tutti i segnali non colti di un destino già scritto e cucito addosso ai personaggi da lui inventati. Chiaro è che nei romanzi e nei racconti i campanelli di allarme ci son sempre stati, anche se sarebbero risuonati con maggiore intensità nel postumo e diaristico Il mestiere di vivere (1952), ma sono poca cosa rispetto alle minacce di estremo autolesionismo che baluginano nelle lettere alle persone amiche o nei resoconti verbatim che tali individui hanno riportato nel corso del tempo. Quel che a posteriori preme notare è che dal complesso quadro della vita interiore di Pavese si evince solo una cosa: egli non poteva essere aiutato perché non lo voleva. Tra l’altro, non era neanche la prima volta che ci provava quando poi è riuscito a farsi fuori, ingerendo una quantità di sonnifero che avrebbe stroncato persino un cetaceo.

Il «vizio assurdo». Storia di Cesare Pavese, di recente riedizione per i tipi di Minimum Fax, è un testo sacro non tanto perché esce a stretto giro dagli eventi narrati, bensì perché a investigarli è Davide Lajolo, redattore e poi direttore de L’unità, caro amico di Pavese con cui condivideva uno spirito di comune appartenenza alla terra piemontese, ossia l’humus che ha originato tanta della sua letteratura: «Io sono una vigna, ma troppo concimata. Forse è per questo che sento ogni giorno marcire in me – gli confidò a tal proposito – anche le parti che ritenevo più sane. Tu che vieni come me dalle colline, sai che il troppo letame moltiplica i vermi e distrugge il raccolto». Si legga tra le righe: questa svalutazione che Pavese fa di sé nel 1945, lui che la guerra l’ha esperita (a differenza del partigiano Lajolo) non da vicino, ha un principio di narcisismo, atteggiamento che ha altresì dotato la sua capacità di scrittura di qualità uniche. A combattere però il pregiudizio diffuso che lo identifica come un depresso senza scampo, Lajolo lo esalta – utilizzando un aggettivo oggi inflazionato che avrebbe dato il voltastomaco allo stesso Pavese – quale figura resiliente: dagli anni di formazione al Liceo Classico D’Azeglio sotto l’egida del prof. Augusto Monti all’impegno politico derivante dalla frequentazione dei cospiratori comunisti del quartiere operaio di Borgo San Paolo e degli intellettuali dell’embrionale gruppo dei Comitati di Liberazione Nazionale (con riunioni nell’allora campagna di Corso Orbassano), passando per il faticoso districarsi dai tentacoli dell’OVRA e il confino a Brancaleone Calabro con l’accusa di attività antifasciste, senza trascurare la vocazione in tempi non sospetti a tradurre opere di autori ancora pressoché sconosciuti in Italia (Dos Passos, Faulkner, Steinbeck, Melville, sfiorando l’idea di portare a casa Einaudi anche il western The Ox-Bow Incident di Van Tilburg Clark), il Pavese descritto da Lajolo si leva dai pettegolezzi attorno al suo suicidio e si fa mito. Un mito ancora vivo, profondamente umano, perciò fallace e pieno di zone d’ombra, che a distanza di oltre sessant’anni dalla prima pubblicazione è quanto mai affascinante riscoprire. Se la sua fine, infatti, testimonia una pulsione di morte, tutta la sua esistenza, le opere e le energie spese ci dicono il contrario.

Simone Tarditi
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