
Addentando il cuore marcescente di Dahmer
February 28, 2023 0 By Simone TarditiA metterla sul ridere o, se non altro, volendo provare a strappare un sorriso, si potrebbe dire che Jeffrey Dahmer aveva dei pessimi gusti cinematografici: seduto sul letto, con a terra il cadavere in putrefazione del suo fidanzatino sordomuto e di fianco una nuova potenziale vittima, il cannibale di Milwaukee confessa che il suo film preferito è L’esorcista III. E se le persone andassero giudicate per i soli film che vedono … beh, ci siamo capiti. Facendo a meno di questa ironia tagliente, la serie Netflix che ha polarizzato le opinioni dell’intero globo riesce fin dalla prima puntata a tenere gli spettatori nella posizione scomoda di chi prova repulsione e tenerezza per un mostro che forse è semplicemente nato così. Dahmer, com’anche noi, rimane in bilico. Non v’è un’apologia dell’assassino e neppure s’inscena un’accusa perentoria nei confronti di un mostro impossibile da catalogare tra i “normali” esseri umani. Come si potrebbe creare fascinazione ed empatia, benché con il dovuto distacco, d’altronde? A sostegno di una qualche e parziale assoluzione di Jeffrey ci sarebbero due tesi che viaggiano all’unisono: da un lato è chiaro quanto egli sia stato instradato verso l’arte della tassidermia per mano del padre, dall’altro non si risparmia neanche la madre da un concorso di colpa dal momento che ai tempi della gravidanza, in quanto mentalmente instabile, si sarebbe imbottita di farmaci in grado di produrre danni al feto. Per quanto questi siano i rimproveri che i due genitori si rimbalzano a vicenda, è pur vero quanto, stando alla serie, il destino del giovane fosse segnato già in partenza.
Più che alla banalità del male, in Dahmer si assiste a una sua quotidianità. L’efferatezza dei crimini è l’altra faccia, quella oscura, della medaglia che ha per effigie l’immagine di un weirdo qualunque all’apparenza, con quel volto angelicale, innocente ai limiti dell’inebetito, e quell’espressione da chierichetto abbellita in sommità da lucenti capelli biondi. Jeffrey la fa franca così a lungo proprio perché non ha l’aspetto di un omicida, nonostante da fuori il luogo in cui vive, un bilocale a metà tra la cripta di un vampiro e la tana di un ragno, fornisca agli inquilini dello stabile l’idea dell’esatta natura insita nell’uomo: una struttura maleodorante che marcisce dall’interno. Del protagonista colpisce inoltre la scarsa valutazione che ha di sé. Non solo si considera un fallimento, ma lo accetta. Non crede di essere superiore agli altri, non fa nulla per migliorarsi e, invece che provare, costituendosi alla polizia, a ripercorrere all’indietro il baratro nel quale è precipitato, prosegue quel percorso di devianza ai danni del prossimo. Il disordine in cui perennemente vive è il riflesso del caos che lo regola dal momento che varia a seconda dei casi (con un’illogicità di fondo che denota una follia nella follia) il suo modus operandi nell’ammazzare: a volte risparmia la sofferenza, altre la prolunga. La disarticolazione dei cadaveri (alcune parti di corpi vengono conservate in frigo a fini alimentari o di preservazione, altre invece finiscono dritte in un bidone d’acido per essere sciolte e smaltite) e la zombificazione degli individui, tutti maschili, a cui tiene di più e che vuole al proprio fianco, rientrano nelle pratiche abitudinarie che Jeffrey porta avanti nella cornice domestica. Come se – ed è qui che si realizza uno dei sacri comandamenti della società americana – quello che accade in casa propria debba essere soggetto a riservatezza. Si noti come, quando “l’hobby” di Jeffrey viene interrotto a causa dell’arresto, il suo spirito si purifichi in automatico con l’ammissione del dolo perché, varcando la soglia dell’appartamento, le forze dell’ordine rendono pubblico e contaminano il suo segreto. Finita la privacy, finisce la vita. Posto che per il protagonista sia mai davvero iniziata.
Into this world we're thrown".
-Jim Morrison
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