
Scavando la fossa di Tulsa King
March 17, 2023 0 By Simone TarditiSylvester Stallone e il genere gangster si sono incrociati meno spesso di quello che si tenderebbe a pensare guardando Tulsa King. Lungo gli oltre cinquant’anni di cinema che vanno dalla mancata assunzione in veste di comparsa per Il padrino (“non sembri abbastanza italiano” gli dissero al casting) al biopic sul mafioso Gregory Scarpa che mai vedrà la luce – perlomeno non con Sly dal momento che è guerra aperta con Irwin Winkler, colui che detiene i diritti della sceneggiatura – l’attore di origini italoamericane ha sicuramente prediletto interpretare ruoli da buono, quasi sempre da eroe (in Samaritan anche da supereroe). Ci sono diverse eccezioni. Ecco alcuni titoli in cui Stallone si pone dall’altro lato della barricata rispetto alla legge: La vendetta di Carter, Jimmy Bobo – Bullet to the Head, Avenging Angelo, Assassins. Quelli di cui ha calzato i panni, non sono killer sregolati e senza un codice d’onore, non sono psicopatici che brutalizzano il prossimo solo per il gusto di farlo, ma sono personaggi con una struttura interna solida, con una moralità di fondo in certi casi superiore ai rappresentanti della giustizia.
Con Tulsa King (seconda stagione confermata) siamo al crocevia di queste medesime considerazioni: il divo interpreta un criminale (Dwight Manfredi, aka Il Generale) che, uscito di carcere dopo venticinque anni vissuti a bocca cucita, si trova di fatto ostracizzato dalla sua famiglia malavitosa e costretto a reinventarsi una professione nell’unico modo che conosce: illegalmente. Si assiste quindi a pestaggi, furti, minacce, uccisioni, ma anche a opere di solidarietà e manifestazioni d’affetto (soprattutto per la figlia allontanata e ritrovata). Vero, Taylor Sheridan ha scritto questa serie grossolanamente, facendo fin da subito emergere che l’abbozzo degli avvenimenti va di pari passo con la brevità delle puntate (35 minuti in media, un po’ poco per gli standard di oggi), tuttavia Tulsa King è il progetto che meglio descrive lo stato attuale dell’ultrasettantenne Stallone. Come invece capitato nella scadente trilogia di Escape Plan, qui l’attore non fa di tutto per sembrare più giovane di quello che è. Anzi, accetta l’età anagrafica e ci scherza sopra. L’unica nota di vanità è che Dwight Manfredi nasce nel ’47, Stallone un anno prima. Il punto però è anche un altro: la narrazione di Sheridan propone un antieroe tagliato fuori da un mondo in cui non si riconosce più e nel quale riesce cionondimeno ad adattarsi applicando quelle che sono le conoscenze di un tempo. Un delinquente che, tra un pizzo e un cranio sfondato a calci, sa anche far sorridere, come quando l’avversione per i bicchieri di carta è tale da fargli travasare il caffè in tazzine di ceramiche oppure quando si lancia in una filippica contro le criptovalute perché sono soldi che non può toccare con mano. Da qui il passo è breve, se da un lato infatti è realistico il ritratto di un bandito agée, dall’altro il suo comportamento è così esagerato che rischia di sfociare involontariamente o meno nel comico: davvero si può pensare, soprattutto nei primi episodi, che senza limiti Manfredi elargisca soldi in giro semplicemente estorcendo un negozietto di periferia che vende cannette agli sballoni?
Into this world we're thrown".
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